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“Porta Capuana”, lo sguardo di Marcello Sannino su un crocevia di umanità e contraddizioni

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Essere sotto l’arco di Porta Capuana è come stare al centro di un flusso continuo tra passato e presente.

C’è un luogo a Napoli dove il passato non passa mai, dove la storia non si legge sui libri ma si ascolta tra le voci del mercato, si annusa nell’odore del pane e si tocca sulle mura consunte dai secoli. È Porta Capuana, teatro universale e crocevia di umanità, che Marcello Sannino racconta nel suo documentario con uno sguardo che non osserva soltanto, ma partecipa, ascolta, assorbe. Fin dai primi fotogrammi Porta Capuana si presenta come un’esperienza sensoriale più che narrativa. Non c’è un’unica storia da raccontare nel senso convenzionale, ma un tessuto di vite, memorie e spaesamenti.

Sannino filma il quartiere come un organismo vivo, attraversato da correnti di umanità diverse: i migranti arrivati da terre ferite, i napoletani che non se ne sono mai andati, chi guarda indietro con nostalgia e chi avanti con ostinata speranza. L’occhio della macchina da presa si fa presenza discreta ma empatica. C’è un vecchio avvocato che attraversa Castel Capuano, l’ex tribunale ora svuotato di voci, simbolo potente di una memoria collettiva in cerca di nuovi significati. Il suo passo incerto rispecchia quello dei nuovi arrivati che, a pochi metri di distanza, cercano di orientarsi tra lingue, usanze e ritmi che non appartengono ancora del tutto alla loro vita.

Tutti, in modi diversi, vivono il disorientamento: quello di chi perde i propri punti di riferimento e quello di chi deve inventarsene di nuovi. Sannino riesce a fare del disorientamento non solo un tema, ma una forma cinematografica. I suoi movimenti di macchina fluidi, le alternanze tra campi lunghi e primi piani, tra la coralità delle strade e l’intimità dei volti, creano un ritmo che oscilla tra il caos e la sospensione, tra il rumore della città e il silenzio interiore. È un film che si muove come la città stessa: mai fermo, mai definitivo.

L’approccio del regista è quello di un antropologo poetico. Non cerca la denuncia, non impone tesi, ma lascia emergere le contraddizioni e le meraviglie del luogo attraverso il respiro stesso delle persone che lo abitano. La macchina da presa, come Sannino stesso dichiara, “deve scomparire”, diventare invisibile per poter restituire la verità di ciò che accade. Eppure la sua presenza si sente, nella cura dei dettagli, nella delicatezza con cui costruisce le immagini e nella consapevolezza che ogni volto filmato è portatore di una storia universale.

In Porta Capuana, Napoli non è solo sfondo: è protagonista assoluta. Non quella da cartolina, ma quella stratificata, inafferrabile, dove “non c’è né notte né giorno”, come scriveva Matilde Serao. È una città che continua a reinventarsi tra la memoria del passato e le sfide del presente, tra l’identità che resiste e quella che muta sotto l’arco del tempo. Sannino firma così un’opera di profonda umanità, un documentario che guarda al reale con la sensibilità del poeta e la precisione dell’artigiano.

Porta Capuana non è solo un film su un quartiere di Napoli, ma un ritratto universale di ogni luogo in cui l’uomo si trova costretto — o ispirato — a ridefinire il proprio posto nel mondo.

Chi vuole conoscere il popolo napoletano davvero… venga a Porta Capuana.”
Matilde Serao

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