“È stata la mano di Dio”, l’opera più sincera e personale di Paolo Sorrentino

C’è un momento in cui l’arte smette di essere esercizio di stile e torna a essere carne, memoria, dolore. Con È stata la mano di Dio, Gran Premio della Giuria a Venezia 78, Paolo Sorrentino compie il gesto più radicale della sua carriera: spoglia il proprio cinema della maschera e ne mostra il volto nudo. Dopo le architetture romane de La grande bellezza e i labirinti vaticani di The Young Pope, il regista napoletano torna a casa, nella sua Napoli, per raccontare la storia più personale, fragile e luminosa della sua vita.
Siamo negli anni Ottanta, tra motorini, processioni e…Maradona. In quell’aria carica di speranza e superstizione cresce Fabietto Schisa (un magnetico Filippo Scotti), adolescente introverso e sognatore, alter ego di un giovane Sorrentino che ancora non sa che il destino lo sta preparando al dolore. La sua famiglia è un piccolo teatro partenopeo: un padre ironico e disilluso (Toni Servillo), una madre dolcissima e imprevedibile (Teresa Saponangelo, straordinaria), un fratello maggiore scapestrato, zii e parenti che sembrano usciti da un sogno felliniano. Tutto è vita, rumore, caos, amore. Poi la tragedia: improvvisa, devastante, irreversibile.


È qui che il film cambia tono, che la giovinezza diventa sopravvivenza, e il ragazzo deve reinventarsi vivo. Sorrentino racconta questo passaggio con una sincerità disarmante. Il suo cinema, solitamente sontuoso, qui si fa essenziale: niente barocchismi, niente frasi altisonanti, solo lo sguardo limpido di chi si ricorda com’era guardare il mondo per la prima volta. Daria D’Antonio firma una fotografia che cattura la luce malinconica di una Napoli sospesa tra mare e memoria, mentre il montaggio di Cristiano Travaglioli costruisce un ritmo intimo, come un battito del cuore.
È stata la mano di Dio è un film fatto di contrasti: l’umorismo che anticipa la tragedia, la sensualità che nasconde la paura, la vita che si ostina a fiorire sul dolore. La zia Patrizia (una Luisa Ranieri ipnotica, dolente e selvaggia) è il primo mistero della femminilità per Fabietto; la Baronessa Focale (Betti Pedrazzi) è la rivelazione dell’empatia e del desiderio. Figure che accompagnano il ragazzo verso l’età adulta, insieme al regista Antonio Capuano — interpretato da Ciro Capano — che gli insegna la cosa più importante: “La speranza è una trappola. Devi essere sincero con te stesso”. In quella frase c’è tutto Sorrentino: la sua poetica, la sua ferita, la sua rinascita. Perché Fabietto — come Paolo — sopravvive grazie a una doppia salvezza: la mano di Dio che gli evita la morte e la mano del cinema che gli insegna a vivere.

La Napoli del film non è mai oleografica. È una città che ride e bestemmia, che abbraccia e respinge, che salva e ferisce. È la Napoli di un adolescente che impara a guardarla dal mare e, per la prima volta, a distanza. È anche la città che, come scriveva Pino Daniele, “è mille colori e mille paure”. Non a caso, il film si chiude con Napule è che risuona nelle cuffiette di Fabietto mentre il treno lo porta verso Roma, proprio come Moraldo alter ego di Fellini nel finale de “I vitelloni“: una partenza che è insieme fuga e promessa.
Sorrentino firma così il suo film più sincero, il più vulnerabile, forse il più necessario. Un’opera che rinuncia alla “grande bellezza” per inseguire una piccola verità: quella di un ragazzo sopravvissuto che, da allora, non ha mai smesso di raccontare la vita come un miracolo imperfetto.

in the picture Filippo Scotti.
Photo by Gianni Fiorito
This photograph is for editorial use only, the copyright is of the film company and the photographer assigned by the film production company and can only be reproduced by publications in conjunction with the promotion of the film.
The mention of the author-photographer is mandatory: Gianni Fiorito.
Set della serie Tv “E’ stata la mano di Dio” di Paolo Sorrentino.
Nella foto Filippo Scotti.
Foto di Gianni Fiorito
Questa fotografia è solo per uso editoriale, il diritto d’autore è della società cinematografica e del fotografo assegnato dalla società di produzione del film e può essere riprodotto solo da pubblicazioni in concomitanza con la promozione del film.
E’ obbligatoria la menzione dell’autore- fotografo: Gianni Fiorito.





