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TAKE FIVE – storia di una “paranza” da rapina in un film dal ritmo jazz

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Se ci si dovesse basare sui riferimenti, sulle ispirazioni cinematografiche di una data opera per farsi trascinare al cinema a vederla, Take Five di Guido Lombardi avrebbe avuto un ottimo risultato assicurato al botteghino visto che le comete seguite per questo lavoro sono titoli come Rapina a mano armata di Kubrick, Le Iene di Tarantino e I Soliti Ignoti di Monicelli.

Sarebbe un errore limitare i pregi di questo film agli accostamenti con capolavori del passato: Take Five è un lavoro innovativo, originale, ben girato e straordinariamente recitato che parte dal titolo per definire la ricerca dell’ “irregolarità” narrativa della storia. Il film prende il titolo da uno dei migliori brani jazz che sia mai stato suonato, di Dave Brubeck del 1959, reso unico dal caratteristico ritmo a 5/4, un ritmo irregolare che dall’uscita del brano portò Take Five a divenire una frase idiomatica che letteralmente significa “prendine cinque”.

E Guido Lombardi, per la sua seconda prova da regista dopo Là-bas, ne ha materialmente presi cinque, di protagonisti della storia che ha scritto e portato sul grande schermo.

Carmine, un idraulico col vizio del gioco, un giorno si ritrova a riparare una perdita fognaria nel caveau di una banca e viene colto da un’illuminazione conseguente alle centinaia di migliaia di euro di debiti che deve pagare: così va da Gaetano, un ricettatore con diversi anni di carcere alle spalle, e gli racconta l’idea della rapina trovando subito la sua approvazione. Ma per il colpo serve mettere su una banda e Gaetano si prende il compito di reclutare gli altri componenti: Sasà, fotografo di matrimoni malato di cuore con un passato da scassinatore, Salvatore, nipote di Gaetano, pugile dalle grandi potenzialità squalificato a vita per aver rotto una sedia in testa ad un arbitro, e ‘o Sciomen, una leggenda vivente per la criminalità napoletana, un “gangster” d’altri tempi appena uscito da una lunga detenzione in galera che lo ha reso depresso ed eccessivamente emotivo.

La paranza (come a Napoli, con riferimento ittico, viene definita una banda non proprio amalgamata) è al completo, unita solo dal desiderio di portare a termine il colpo della vita. Ma quando c’è il denaro di mezzo qualsiasi alleanza è messa a dura prova, ancor di più se fragile e costellata da incomprensioni e imprevisti: imprevisti come la camorra, come ‘o Jannone, boss latitante assetato di sangue e potere che appena viene a sapere della rapina pretende la sua parte. Tra diffidenza, solidarietà, menzogne, l’epilogo porterà ognuno dei protagonisti a trovarsi parte di un gioco al massacro nella lotta per la sopravvivenza.

Cinque “irregolari” in una città “irregolare”, Napoli, alle prese con una rapina milionaria: sintesi più breve non potrebbe esserci, e anche la trama, raccontata semplicemente e in maniera succinta, non può dare il giusto valore a questo film. Take Five è un film “jazz” girato in una città “jazzy”, e i protagonisti raccontati sono come degli “assolo” uniti nello stesso brano da un abile e geniale musicista; Guido Lombardi ha girato un classico “caper movie” (film sul colpo grosso-di rapine) riuscendo ad allontanarsi dai canoni stereotipati del genere, provvedendo a lavorare sul corpo e a disegnare la caratterizzazione dei personaggi eludendo gli eccessi narrativi e puntando sugli sguardi, sulle espressioni e sul mutamento degli stati d’animo e del comportamento dei protagonisti nell’evoluzione della storia principale.

La sceneggiatura è stata scritta, o comunque ha preso corpo, sui cinque attori scelti per interpretare la “paranza” tanto che i protagonisti nella pellicola mantengono gli stessi nomi degli attori riportandone in alcuni casi addirittura le esperienze di vita, e difficilmente si può immaginare Take Five con interpreti diversi, nonostante ci fosse stato l’interessamento di un certo Gerard Depardieu per il ruolo di ‘o Sciomen: fortunatamente Lombardi e la produzione hanno trovato il loro Sciomen in Peppe Lanzetta, mastodontico, eccezionale, con un’evoluzione interpretativa sorprendente con il passare degli anni, probabilmente qui alla sua migliore prova d’attore.

Dall’esperienza di un’artista a tuttotondo come Lanzetta si passa ad una delle sorprese più piacevoli degli ultimi anni della cinematografia napoletana come Salvatore Striano, visto e apprezzato in Cesare deve morire dei Taviani (orso d’oro a Berlino) e Gomorra di Garrone (Grand Prix a Cannes): la sua bravura nel vestire i panni del fotografo Sasà sta nel cambiare con profonda intensità e credibilità il registro interpretativo nell’arco del film riuscendo ad incarnare l’ambiguità e l’umanità nello stesso personaggio. Rimanendo in ambito di giovani sorprese tra i protagonisti vanno segnalati Carmine Paternoster (Gomorra di Garrone) e Salvatore Ruocco (Pasolini di Ferrara, tra gli altri), davvero bravi sopratutto perché i loro personaggi nella banda risultano i più lontani dall’ambiente criminale e il loro coinvolgimento dovuto a motivazioni diverse li porta ad una forzatura emotiva espressa con impressionante naturalezza. In tema di forzature si arriva a parlare del personaggio del ricettatore e reclutatore della paranza, Gaetano interpretato da Gaetano Di Vaio che non voleva per nulla recitare in questo film semplicemente perché ne è anche il produttore con la Figli del Bronx Produzioni ma è stato “costretto” dal regista Guido Lombardi che in fase di sceneggiatura pensando a chi potesse dare un volto all’organizzatore della rapina non ha avuto dubbi, e ne è stato ripagato da una recitazione sincera e istintiva.

Non fanno parte dei “Five” protagonisti ma sono stati fondamentali all’ottima riuscita del film Gianfranco Gallo e Antonio Pennarella: il primo disegna il personaggio del boss ‘O Jannone magnificamente, calibrando la ferocia criminale sprigionata dagli sguardi e dalle “sentenze” e l’umorismo indimenticabile di alcune battute mai messe a caso. Pennarella nel ruolo di ‘O Ninnillo conferma la sua bravura e col tempo è divenuto una sicurezza per i registi oltre che un punto di riferimento per la cinematografia napoletana (Il Verificatore, Luna Rossa, Giro di luna tra terra e mare, Pater Familias, La guerra di Mario, Noi Credevamo).

Per completare gli elogi al cast vanno segnalati Antonio Buonomo (tra i più apprezzati cantanti della tradizione napoletana), Esther Elisha, Marco Mario De Notaris, Alan De Luca, Vittoria Schisano, ma sopratutto il bravissimo Emanuele Abbate, nel ruolo del bambino, ‘O guaglione fondamentale nella storia del film perché oltre ad essere importante per le dinamiche della trama, sembra rappresentare la città di Napoli, l’ingenuità e la purezza sporcati dal sangue, quel lasciarsi coinvolgere con estrema facilità dal lato oscuro.

Molte delle scene di Take Five sono state girate nell’acquedotto napoletano che nel film funge da sistema fognario, mentre il caveau della rapina è stato ricostruito in una ex-scuola di Scampia e questo dà lo spunto per citare Maica Rotondo che ha curato le scenografie e Francesca Amitrano che si è occupata della fotografia. Soffermandoci sul lato tecnico c’è da sottolineare la volontà di Lombardi di non banalizzare mai le scene girate riuscendo a seguire la lezione di Sergio Leone, per esempio, nel “triello” finale, ma allo stesso tempo, dovendo fronteggiare un budget limitato per una produzione indipendente, di non ricercare continui arzigogoli autoriali che di solito si vedono in quelle regie ingombranti che sotterrano le storie: i rallenty come i flashback non sono fini a sé stessi e la ripresa di una camminata della paranza nella notte assume i toni epici anche grazie ad un’ottima colonna sonora di Giordano Corapi (bella la canzone sui titoli finali cantata da Roberta Serretiello).

A proposito di colonna sonora, è decisivo l’apporto della musica in Take Five non solo per l’ispirazione di Brubeck ma perché ad ognuno dei protagonisti viene assegnato il suono di uno strumento che ne accompagna la presentazione alla prima comparsa in scena e durante il film in alcuni casi è quel suono a richiamare la presenza del personaggio. Take Five è anche un’opera divertente perché la sceneggiatura è scritta meravigliosamente da Guido Lombardi e stavolta la lezione arriva dritta da Quentin Tarantino e da maestri della commedia all’italiana come Monicelli: i momenti di tensione assoluta vengono rotti da battute straordinarie, da discorsi banali, da storielle e le maschere che si alternano hanno profili e storie dettagliate che non serve raccontare perché il particolare, l’espressione, la cadenza e il tono di voce sono più esplicativi di inutili descrizioni didascaliche.

Per citare Boris Sollazzo e la sua perfetta analisi del film di Guido Lombardi, “quando I Soliti Ignoti e Le Iene si incontrano a Gomorra” viene fuori uno dei film indipendenti più interessanti della cinematografia italiana degli ultimi anni, Take Five.

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