Napoli al caleidoscopio: memoria, conflitto, bellezza in “Dadapolis” di Carlo Luglio e Fabio Gargano
Il documentario prende il titolo (e l’ispirazione) dal volume Dadapolis. Napoli al caleidoscopio di Fabrizia Ramondino e Andreas Friedrich Müller, pubblicato nel 1989 (edizione italiana 1992, Einaudi). Nel libro Ramondino costruisce una narrazione “a mosaico” della città di Napoli, attraverso testi che spaziano tra prosa, racconto, versi, osservazioni; un’antologia dello sguardo che guarda Napoli “reale e immaginata”, città fatta di vicoli e mare, ma anche di corpi, odori, monumenti e muri sbrecciati — un luogo polifonico ed esteso.
Questa base letteraria definisce già alcuni tratti che il film cerca di rinsaldare: la molteplicità di voci, l’attenzione al quotidiano, alla stratificazione storica, all’immaginario e al reale intrecciati, alla memoria condivisa e viva. I registi Carlo Luglio e Fabio Gargano costruiscono Dadapolis su circa sessanta artisti: musicisti, performer, street-artist, scrittori, drammaturghi. L’idea non è di fornire una guida né una mappa esaustiva, bensì di tessere un caleidoscopio, dove voci, esibizioni, immagini, dialoghi si susseguono con ritmi che ricordano il jazz — sincopato, a volte dissonante, ricco di pause, di interruzioni, di intrecci imprevedibili.
Il film è articolato in quattro sezioni tematiche, ciascuna evocata da un elemento naturale: Fuoco – Creazione / La città e le sue trasformazioni; Terra – Concretezza / Creatività e Mercato; Acqua – Riunificazione / Morte e rinascita; Aria – Mobilità / Uno sguardo al futuro. Questa struttura serve come memoria di fasci di elementi esperienziali e simbolici: la trasformazione urbana, la precarietà del lavoro artistico, il confronto con il passato, il rapporto con il mutamento del presente e la tensione verso il domani. Dal punto di vista estetico, le scelte registiche privilegiano gli esterni, la costa, il mare, il porto; spesso le interviste non sono formali, regolari: dialoghi in cammino, performance nel paesaggio cittadino, frammenti, immagini che insistono sugli oggetti, sulle facciate scrostate, muri con scritte, rovine, antenne, scorci di mare, piuttosto che monumenti riconoscibili, pur mantenendo un dialogo con la memoria storica della città.

Personaggi, voci e impatto umano
Tra le voci più rilevanti del documentario, Enzo Moscato: poeta, drammaturgo, regista, benché scomparso nel gennaio 2024, compare in una delle sue ultime apparizioni per il grande schermo. Il documentario lo omaggia, ma non lo esibisce come monumento: la sua presenza è peso e vuoto al contempo. Come quella di Gaetano Di Vaio: produttore, figura chiave, anch’egli scomparso durante la lavorazione; l’opera è presentata anche come omaggio alla sua memoria.
Accompagnatori, narratori di “Dadapolis” Peppe Lanzetta, James Senese, Jorit, Cristina Donadio, Tonino Taiuti, Nello Daniele, Lino Musella, Dario Sansone, Roberto Colella, Vale LP: una varietà di età, discipline, stili espressivi che permette di visualizzare Napoli come campo vivo, complesso, in conflitto ma pieno di futuro. Attraverso queste figure il film esplora il rapporto personale con la città: la nostalgia, il dolore dell’abbandono, la creatività resistente, la speranza. A tutti loro il documentario pare porre una domanda implicita: che cosa significa essere artista a Napoli oggi? Qual è lo spazio di libertà? Quali vincoli materiali, sociali, culturali pesano ancora?

Riferimenti storici e artistici
Il legame con il passato è costante ma mai nostalgico. Il ricordo del libro di Ramondino e Müller non è solo un prestito di nome: l’antologia del libro diventa modello per il film — un coro di voci, una molteplicità di prospettive. Il teatro napoletano contemporaneo, in particolare attraverso la figura di Enzo Moscato, è uno snodo storico e artistico centrale: il suo contributo non è solo testimoniale, ma simbolico di una stagione che ha cambiato la drammaturgia e la capacità di sperimentare.
La trasformazione urbana: lo sguardo si sposta su fabbriche dismesse, storture della città, coste che si degradano, periferie invisibili, abbandono accanto al pittoresco. Questi sono riferimenti impliciti e materiali alla storia economica e sociale di Napoli del Novecento e post-industrializzazione, ma anche alle politiche urbane recenti (turismo, gentrificazione, traffico, marginalità) che hanno inciso fortemente sull’immagine della città. Lingua, dialetto, grammelot: la questione linguistica è evocata come elemento vivente, che evolve, si trasforma. Il film non idealizza il dialetto/lingua come “purezza”, ma lo mostra come materia viva: contaminata, oscillante, in cammino.
Tra i punti di forza più evidenti del lavoro di Luglio e Gargano c’è la coralità espressiva: la moltitudine di voci, in questo documentario, è un grande pregio che permette di evitare narrazioni monolitiche, di restituire la complessità della città, le sue contraddizioni e la stratificazione storica. Da sottolineare anche la sensibilità estetica: la fotografia, le immagini del mare, dei porti, dell’abbandono e della bellezza, funzionano come un controcanto potente. Spesso è proprio nell’oscillazione tra splendore e rovina che il film trova i suoi momenti più veri e angoscianti. Così come nel dialogo fra libri, poesia, esibizioni, musica: il film integra le arti con equilibrio; non privilegia un solo linguaggio, bensì li intreccia, creando un corpo dialogante che è più della somma delle parti.

Dadapolis. Caleidoscopio napoletano è un film che non aggiunge semplicemente un’altra rappresentazione di Napoli al già vasto repertorio cinematografico sulla città; è un tentativo — a volte fragile, ma certamente sincero e potente — di restituire la città come esperienza viva, e non come icona. È un’opera che richiama il libro di Ramondino non per ripeterlo, ma per farne anima, per renderlo materia visiva, sonora, performativa.
A chi vive Napoli, a chi la ama, a chi la conosce solo come mito turistico, Dadapolis offre un richiamo: guardate le crepe, ascoltate le voci, camminate nel porto, non solo nella cartolina. È un atto d’amore ma anche di sfida: che la memoria non ceda al commercio, che la bellezza non diventi decorazione, che l’artista non sia soltanto creativo, ma anche custode.


